Dal sito Carmilla on line QUESTO SPUNTO AUTOBIOGRAFICO PROPONIAMO A 
        TUTTI VOI DI INVIARCI AL NOSTRO INDIRIZZO
        archiviobpetrone@libero.it 
        UN BREVE SAGGIO AUTOBIOGRAFICO SULLA VOSTRA ESPERIENZA DI QUEGLI ANNI...
        
        
         
        
        
        
        Vi proponiamo con le dovute cautele invitando a non generalizzare quanto 
        riportato nel brano.... questo testo,  molto ironico sull’atmosfera che 
        si viveva in quei giorni e come fosse naturale aderire senza pensarci 
        due volte ad una organizzazione rivoluzionaria (ed in particolar modo ad 
        un gruppo  maoista sotto l’onda lunga della rivoluzione culturale in 
        Cina e del Maggio francese).  Ricordiamo come l’impegno, la volontà di 
        cambiare realmente la società , la grande spinta ideale portarono decine 
        di migliaia di giovani ad ingrossare le fila di gruppi maoisti, 
        anarchici, filotroskisti, operaisti, anarcosindacalisti, ecc  e a 
        sacrificare  le proprie esigenze personali a favore di quelle degli 
        strati  sociali più deboli ”
        
        
         Questo
        breve testo autobiografico è apparso in AA.VV., Quando suona la 
        campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006. Un'antologia 
        curata dal CESP, il Centro Studi dei Cobas Scuola. Chissà, magari porta 
        un contributo, molto dal basso, al dibattito su '68 e dintorni.]
        
        
        Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e 
        io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla 
        terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna.
        Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta 
        ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. 
        “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per 
        compagni di classe ragazzi in prevalenza ricchi o ricchissimi, con cui 
        faticavo a legare. Inoltre vi era una larga prevalenza di fascisti, 
        forse più negli atteggiamenti che nell’ideologia (appresi poi che lo 
        stesso istituto annoverava tra i propri allievi Gianfranco Fini, però io 
        non lo ricordo). 
        
        
        La composizione sociale del Minghetti era molto diversa. Vi predominava 
        la piccola borghesia. La politicizzazione era scarsa, però nel ’68 uno 
        studente dell’ultimo anno, soprannominato Bifo, aveva promosso uno 
        sciopero e un sit-in nell’atrio della presidenza, a cui avevo 
        partecipato. Si erano tenute assemblee, sebbene su temi marginali (il 
        cattivo stato dei gabinetti, l’esigenza di un distributore di bibite, 
        ecc.).
        Bene, quel giorno dell’ottobre 1969, arrivato al liceo, mi attendeva una 
        sorpresa. Davanti all’ingresso era schierata una fila di giovani, 
        disposta con ordine quasi militare. Ognuno di essi aveva al collo un 
        fazzoletto rosso con l’effigie di Mao, e ognuno reggeva una bandiera 
        recante una falce e martello con gli angoli smussati, sovrastante la 
        scritta Servire il popolo. Altri distribuivano volantini e il 
        giornale La guardia rossa.
        Io non aspettavo altro. A dire la verità, fino all’estate non ero stato 
        per nulla maoista. L’anno precedente, con altri due ragazzi, avevo 
        costituito nel mio liceo il Circolo Anarchico Bandiera Nera. Avevamo 
        distribuito un volantino in sei copie, fatto con la carta carbone, e 
        appeso a una finestra una bandiera per l’appunto nera, ricavata dal 
        grembiule (che allora per le ragazze era obbligatorio) di una compagna 
        di classe. Nient’altro. Poi, durante le vacanze, avevo letto le 
        Citazioni dal pensiero di Mao Tse-Tung edite da Feltrinelli. Non che 
        mi avessero convertito, però parevano mobilitare masse di giovani in 
        tutto il mondo. Io avevo bisogno di menare le mani, e Bakunin sembrava 
        insufficiente (Umanità Nova era un vero strazio). La clamorosa 
        apparizione dei maoisti davanti al Minghetti fu la manna dal cielo.
        Quello stesso pomeriggio io e alcuni compagni di classe - ricordo 
        Massimo Stagni, Cesare Vianello - ci recammo all’indirizzo indicato dal 
        volantino. L’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti aveva sede 
        in una sfarzosa palazzina di Viale Dante, messa a disposizione, seppi 
        poi, da un notaio che collaborava ai Quaderni Piacentini. Quando 
        suonammo alla porta venne ad aprirci una ragazza bellissima, che alzò il 
        pugno. «Cosa volete, compagni?»
        L’atrio era un profluvio di bandiere rosse, e un grammofono suonava le 
        note de L’oriente è rosso e di altri inni cinesi. Fummo fatti 
        entrare in una sala che già accoglieva altri studenti del Minghetti: 
        Libero Fontana, Pietro Poggi, Francesco Cifiello, più una ragazza ancor 
        più incantevole di quella che ci aveva aperto, dai lunghi capelli rossi 
        (il nome non me lo ricordo). Un dirigente dell’Unione, tale Briganti, 
        stava illustrando un opuscolo di Aldo Brandirali, leader supremo del 
        gruppo. Alle pareti, minacciosi cartelli esortavano a curare i baffi e a 
        non portare barba, a fumare con moderazione, ecc.
        Uscimmo di lì tutti iscritti all’Unione, e carichi di giornali da 
        vendere. La guardia rossa conteneva un racconto esemplare su una 
        lavatrice di condominio, che aveva sottratto gli inquilini alla servitù 
        degli elettrodomestici privati. Le pagine centrali erano occupate dal 
        testo della futura Costituzione della Repubblica Italiana. 
        Giuridicamente era un po’ rozza - “I preti potranno dire messa, ma non 
        riceveranno quattrini dallo Stato” - e prevedeva un sacco di 
        fucilazioni; però pensai che, prima della rivoluzione, sarebbe stata 
        senz’altro migliorata.
        Pochi giorni dopo ero davanti al Minghetti, con il mio fazzoletto rosso 
        al collo e la bandiera che sventolava. Passò la professoressa di 
        italiano del ginnasio e mi disse: «Vedi che avevo ragione a chiamarti 
        Mao-Mao?» In effetti aveva battezzato così me e una compagna di classe, 
        Luciana Emiliani, dopo che in un tema avevamo preso posizione a favore 
        del maggio francese. Le risposi con un grugnito.
        L’avventura maoista durò pochi mesi. L’Unione non pareva avere una linea 
        molto chiara, circa gli studenti. Un giorno alla settimana entravamo a 
        scuola un’ora dopo, alle nove, e io venivo spedito alle otto a 
        distribuire volantini che parlavano della Grande Rivoluzione Culturale 
        davanti ad altre scuole più “proletarie”, come l’Istituto Tecnico 
        Fioravanti, oppure davanti a fabbriche non lontane dal centro cittadino.
        Nel frattempo, dall’Unione erano usciti quasi tutti. I miei compagni di 
        classe avevano retto pochi giorni. La militanza degli studenti più 
        anziani si era prolungata per poco più di un mese. Restavano, assieme a 
        me, il capocellula Cifiello (uscì dall’Unione solo quando gli fu chiesto 
        di piantare gli studi e di andare a lavorare in fabbrica) e la ragazza 
        dai capelli rossi, peraltro inavvicinabile a causa del puritanesimo 
        rigoroso che regnava tra i maoisti.
        La crisi, per me, sopraggiunse dopo un poco. C’era uno sciopero 
        generale, e l’Unione aveva formato un proprio corteo. Agitavamo i 
        Libretti Rossi (nel frattempo erano arrivati quelli stampati in Cina), 
        gridavamo “Stalin, Mao, Brandirali!”. Ci fermammo a salutare un pullman 
        di turisti giapponesi, scambiati per “compagni cinesi” e ben felici di 
        fotografarci. Già da tempo nutrivo dubbi; la messinscena mi confermò che 
        stavo partecipando a una vera stronzata.
        D’improvviso ecco che ci incrocia, all’altezza di Piazza Maggiore, un 
        corteo tutto diverso. Non ha bandiere, procede veloce. Molti hanno il 
        fazzoletto sul viso, i ranghi sono tenuti stretti da manici di piccone. 
        Gridano un unico slogan: «Lotta continua! Potere operaio!» Non guardano 
        nemmeno noi maoisti.
        In un attimo faccio la mia scelta. Slaccio il fazzoletto con il ritratto 
        di Mao e lo consegno a chi mi sta accanto. Corro a inseguire l’altro 
        corteo, che intanto ha svoltato in via Rizzoli e sta imboccando via 
        Zamboni. Dieci minuti dopo mi trovo a sfondare, con un segnale stradale 
        divelto usato come ariete da decine di braccia, la porta dell’università 
        che dà su via Belmeloro. La polizia carica ma viene respinta a più 
        riprese. Confuso nella calca, faccio irruzione nel Rettorato. Inizia per 
        me una nuova vita.
        Qualche tempo dopo saprò che, il 16 febbraio 1970, l’Unione dei 
        Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti mi ha espulso per “indegnità 
        politica e morale”. Ha espulso anche la ragazza dai capelli rossi, forse 
        per errore. Di lei non so, da quel momento ci siamo persi di vista; ma a 
        me, dell’espulsione, non importava più un accidente.