MOVIMENTI ANNI 70

INTERNAZIONALE

 RACCONTATI DA VOI

ARCHIVIO STORICO BENEDETTO PETRONE

GOLPE ARGENTINA

24 marzo 1976 

LA NOTTE DELL'ARGENTINA

una serie di documenti sul golpe dei militari argentini di 20 anni fa,  

inviatoci dal Circolo di iniziativa proletaria Giancarlo Landonio  (Busto Arsizio)

 che la redazione dell'Archivio Storico Benedetto Petrone  pubblica integralmente  con piacere , ringraziando del puntuale contributo di ricerca storica  e della verità su uno dei fatti più bui della storia del movimento proletario internazionale

 

--------------CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO VIA STOPPANI 15
(QUART. SANT´ANNA dietro la p.zza princ.)
- ITALIA - 21052 - BUSTO ARSIZIO - VA -
(a poca strada dall'uscita autostrada A8 Laghi)

 

24 marzo 1976 

LA NOTTE DELL'ARGENTINA  

 

Cala la notte sull'Argentina e per decine di migliaia di persone inizia un viaggio senza ritorno

 

 

.....El 24 de marzo de 1976, los comandantes de las tres armas derrocan al gobierno constitucional de Isabel Martínez de Perón.
Videla, Massera y Agosti inician así una época trágica, sin precedentes en la historia argentina.
30.000 desaparecidos, miles de encarcelados, asesinados, exiliados;
la impagable deuda externa, la destrucción de la industria nacional, de la educación pública, de los hospitales,
son sólo algunos de los hitos del
"Proceso de Reorganización Nacional"  ......
 

Il Golpe Militare In Argentina


Sono passati ormai più di vent'anni da quando nel 1976 i militari argentini assunsero formalmente il potere. Quella mattina del 24 marzo non furono molti a esserne sorpresi.
 Non solo per le strade non si videro i classici carri armati. non solo non ci furono scontri o morti, ma non si rese nem­meno necessario sparare un colpo.
Non furono sfoderate le armi, non ci fu bisogno di ostentare la forza. Nessuno poteva però immaginare ciò che sarebbe accaduto.
I militari, prima ancora di occupare il Palazzo, avevano acquisito un monolitico potere di "persuasione". Un potere in cui non occorreva alzare la voce per essere assecondati, anzi non era necessario nemmeno parlare perché si sarebbe stati obbediti prima ancora di comandare, una costrizione nata nel terrore.

Questo linguaggio, largamente conosciuto in Argentina, frutto dell'ordine militare sperimentato a lungo nei frequenti colpi di stato che hanno interrotto - ma prima limitato, con­dizionato e vincolato - la vita democratica, questo linguag­gio della forza occupò il Palazzo come chi ritorna dopo una vacanza in una casa che è sempre stata la sua.

In Argentina non ci sono mai stati gli stadi pieni di pri­gionieri politici come nel vicino Cile. La lezione di Pinochet era servita a qualcosa. Non si doveva provocare la condanna internazionale, ma piuttosto dare un'immagine di modera­zione e legalità. Un'immagine difficile da mantenere quando ciò che si vuole coprire è l'annientamento di ogni forma di opposizione. L'impunità di cui hanno goduto i militari ar­gentini risiede nella vastità dei loro progetti: "Prima uccide­remo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi," affermava senza scomporsi il generale Iberico Saint-Jean, governatore militane della provincia di Buenos Aires.

L'ascesa al potere

I militari cominciarono a prendere le redini del paese il 6 novembre 1974, costringendo il governo a decretare lo stato di assedio e quindi la sospensione di tutte le garanzie costitu­zionali dopo l'attentato che provocò la monte del capo della Polizia. Il 6 febbraio 1975 riuscirono a ottenere il nullaosta per intervenire nella regione di Tucumàn, nel nord del paese, dove la guerriglia occupava una piccola area di montagna. A fine luglio dello stesso anno i militari tolsero di mezzo, cari­candolo su un aereo per il Brasile, l'uomo forte del governo di Isabel Perón: Lopez Rega. A metà agosto una sommossa obbligò la Perón a mandare in pensione il comandante del­l'Esercito, considerato troppo moderato. Al suo posto venne nominato il generale Videla. Il 6 settembre i militari ottenne­ro la formazione di un Consiglio interno di sicurezza per tut­to ciò che riguardava la lotta antisovversiva.. Il 18 novembre, infine, si assicurarono ufficialmente il comando delle azioni contro i "delinquenti sovversivi".

Era da tempo ormai che si sentiva parlare di colpo di stato. Seguendo la tradizione, si affermava che ilgolpe era inevitabi­le. Si inventavano due correnti: una "dura" sullo stile di Pinochet con i militari disposti a tutto; un'altra "moderata", capeg­giata da Videla che voleva salvare la patria dal pericolo mar­xista e che si proponeva di ristabilire l'ordirne democratico e repubblicano. Si cercava così di guadagnare un certo consen­so attorno a quelli che saranno effettivamenite i golpisti.

Un gruppo paramilitare, del resto, esisteva già: la Triplice A (Alleanza Anticomunista Argentina) creatca da Lopez Rega sul modello degli squadroni della morte. Loro compito era l'eliminazione degli oppositori, fossero questi deputati, preti, sindacalisti, giornalisti, operai o studenti. Anche per i milita­ri si trattava di un'organizzazione che faceva molto comodo in quanto le si poteva attribuire qualsivogliia crimine politi­co. Le forze dell'ordine, e molte volte l'Eserrcito, usavano le stesse macchine senza targa, gli stessi meltodi e perfino le stesse persone. La Triplice A fu attiva fino al I giorno del colpo di stato, dopodiché non apparve più pubblicamente con que­sto nome e i suoi mèmbri entrarono a far parte dei gruppi clandestini della dittatura.

L'annientamento

II 24 marzo 1976 il potere passò ai militari senza nessun incidente. Vennero sospese le attività dei partiti politici e dei sindacati, ma si fece sapere che queste erano misure transi­torie e che la Giunta militare aveva come obiettivo il raffor­zamento della struttura democratica del paese. Gli argentini avrebbero dovuto abituarsi a questo tipo di paradosso. Debole, quasi formale, comunque attendista, fu la reazio­ne internazionale. Sembrava evidente che Videla non era Pinochet così come Isabel Perón non era Salvador Allende. Il paragone con il caso cileno non è di grande aiuto. Purtroppo la condanna internazionale sarebbe arrivata troppo tardi. La Giunta militare volle eliminare tutti i suoi nemici senza che si diffondesse la coscienza di tale annientamento. Fu inven­tata una strategia rivoluzionaria: niente arresti di massa, niente carceri, niente fucilazioni ne assassinii clamorosi co­me quelli della Triplice A. Gli oppositori sarebbero stati se­questrati da gruppi non identificati, caricati su vetture senza targa e fatti scomparire.

Ebbe così inizio, lentamente, il più grande genocidio del­la storia argentina. I sequestri furono sempre più frequenti e si ripetevano sempre secondo le stesse modalità. Non erano gruppi incontrollati dell'estrema destra, come voleva far cre­dere la Giunta, ma vi era una struttura centrale che li coordi­nava. Le operazioni venivano compiute nei posti di lavoro delle persone segnalate o per strada in pieno giorno, median­te un piano che richiedeva la "zona franca" da parte delle for­ze di Polizia. Le loro volanti che, specialmente dopo il colpo di stato erano presenti un po' dappertutto, stranamente non videro mai niente, anche se i sequestri si consumavano a po­ca distanza dal commissariato. Ma la stragrande maggioran­za dei sequestri avveniva di notte in casa delle vittime. Il commando occupava la zona circostante ed entrava nelle ca­se facendo uso della forza. Terrorizzava e imbavagliava perfi­no i bambini obbligandoli a essere presenti. La vittima veni­va catturata, brutalmente colpita e incappucciata, poi trasci­nata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto del gruppo rubava tutto quello che poteva (in alcuni casi arriva­vano perfino con dei camion) o distruggeva quello che non poteva portarsi via picchiando e minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui i vicini o i parenti riuscivano a dare l'allarme, la Polizia non arrivava mai. Si incominciò co­si a capire l'inutilità di sporgere denuncia. La maggioranza della popolazione era terrorizzata e non era nemmeno facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla.

In questo modo migliaia e migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica categoria, quella dei
desapareci­dos

Nessun interrogativo trovò una risposta: la Polizia non aveva visto nulla, il Governo faceva finta di non capire di che cosa si stesse parlando, la Chiesa non si pronunciava, gli elenchi delle carceri non registravano le loro detenzioni, i magistrati non intervenivano. Intorno ai desaparecidos si era alzato un muro di silenzio. Con i diritti avevano perso anche l'esistenza civile. Dal momento in cui avveniva il sequestro la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno. Depo­sitata in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi intermedi di detenzione dove veniva sottoposta a tor­ture infernali, e lasciata all'oscuro della propria sorte. Alcuni venivano perfino abbandonati dalla famiglia, che sotto la pressione di continue minacce, ricatti e richieste di denaro, viveva nel terrore di rappresaglie e qualche volta fiduciosa che il silenzio, richiesto dai militari, fosse il miglior modo per ottenere qualche informazione.

Nei Centri clandestini di detenzione veniva sistematica­mente applicata la tortura. "Se una volta finita la mia prigio­nia mi avessero domandato: sei stato torturato molto? avrei risposto: sì, tutt'e tré i mesi senza sosta. Se la domanda me la facessero oggi direi che fra poco saranno sette anni di tortu­ra."(nota 1). Nella quasi totalità delle denunce ricevute dalla Com­missione si constatò l'uso di metodi di tortura. Le "sessioni" erano sorvegliate da un medico che controllava i limiti di tol­leranza della vittima e determinava il proseguimento o la momentanea sospensione della tortura se la vittima non era in grado di reggerla.

La valutazione preventiva per capire se la persona da se­questrare o sequestrata avesse qualcosa da dire d'interessante per i sequestratori era pressoché inesistente. Questo metodo indiscriminato portò al sequestro e alla tortura degli opposi­tori ma anche dei loro famigliari, amici, colleghi di lavoro e di un numero rilevante di persone senza alcun tipo di pratica politica o sindacale. Bastava molto poco per essere conside­rato sospetto. Un equivoco, un'esitazione, come non ricordar­si a memoria il numero del proprio documento d'identità se si veniva fermati per strada, poteva essere fatale. Ciò spiega anche il fatto che molte vittime, che non avevano niente da dichiarare, denunciassero chiunque pur di avere una pausa durante la tortura. Veniva così allargata a dismisura la rete delle persone che "non volevano collaborare" con gli inquisitori, se non altro perché non sapevano chi denunciare.

Il prigioniero poteva morire sotto tortura, essere fucilato o gettato in mezzo all'oceano. Il suo cadavere sarebbe stato forse sepolto nelle tombe comuni di cimiteri clandestini, cre­mato o buttato in fondo al mare con un blocco di cemento ai piedi (nota 2).

Anche se la dittatura militare aveva modificato il Codice penale introducendo la pena capitale, ufficialmente non ci fu nessuna condanna a morte. Nonostante le migliala di vitti­me, non fu eseguita in nessun caso una sentenza giudiziaria ne civile ne militare. Non fu quindi rispettata nemmeno que­sta precaria legalità che lo stesso regime aveva stabilito. Passavano così i giorni, i mesi, gli anni, senza avere mai nessuna notizia, trovando sempre risposte negative. Nessuno pareva sapere niente di loro. Erano scomparsi.

Il ritorno della democrazia

Quando il governo di Raùl Alfonsìn cominciò a indagare sulla sorte degli scomparsi non si trovò nulla: ne prigionie­ri, ne cadaveri, ne stanze di tortura, ne documentazione (che tuttavia si sapeva esserci per ogni caso). Dal materiale seque­strato insieme alla vittima ai libri considerati pericolosi e, in molti casi, perfino ai figli dei presunti sovversivi, tutto era svanito, disperso, dileguato.

Il Governo ordinò comunque al Consiglio superiore delle Forze Armate che procedesse al rinvio a giudizio dei mèmbri delle tré Giunte militari per omicidio, privazione illegittima della libertà e applicazione della tortura sui prigionieri. Do­po la sentenza militare ci si poteva appellare in seconda istanza davanti ai tribunali civili. La decisione del Governo lasciò tutti un po' perplessi. In primo luogo non si capiva perché i militari non venissero giudicati direttamente da un tribunale civile come qualsiasi altro cittadino, in secondo luogo, si temette che il processo si chiudesse dietro questi nove imputati. È significativo, per capire le intenzioni di Alfonsin, segnalare che il progetto di leg­ge che l'esecutivo aveva inviato alle Camere per approvazio­ne non prevedeva il passaggio a una seconda istanza civile.

Dopo mesi di attesa i tribunali militari non si pronuncia­rono. Il Governo si vide infine costretto ad ammettere che il Consiglio superiore delle Forze Armate non era disposto a processare i propri pari. La causa passò ai tribunali civili do­ve finalmente nel dicembre 1985 si arrivò a una condanna mite che lasciò molti insoddisfatti (nota 3). Ma, forse, il punto più importante della sentenza era il punto 30, che consigliava il rinvio a giudizio di altri militari di grado intermedio. Poco tempo dopo si aprirono più di 1500 processi per violazione dei diritti umani.

Alfonsin volle fermare il processo d'incriminazione delle Forze Armate e sancì nel dicembre 1986 la legge del Punto fi­nale che, per "pacificare" il paese, fissò un termine di 60 gior­ni oltre il quale non sarebbero state più ammesse denunce per violazione dei diritti umani. Venne così limitata la possi­bilità di apertura di nuove cause. Tré mesi dopo la scadenza dei 60 giorni un altro arbitrario giuridico vanificò tutti gli sforzi di chi cercava giustizia. La legge di Obbedienza dovuta assolse da tutti i crimini già documentati e giudicati lascian­do i colpevoli in libertà e sostenendo che, al di fuori dei man­danti, i quadri intermedi - non avendo potere decisionale -avevano agito in stato di costrizione. L'opera fu completata dal presidente Carlos Menem che, nell'ottobre 1989, dopo tré mesi di Governo, sancì l'indulto per 216 militari e civili coinvolti nel genocidio e per 64 perso­ne presumibilmente legate alla sovversione (nota 4). La misura escludeva i mèmbri delle Giunte militari Videla e Massera che godranno di un nuovo indulto il 28 dicembre 1990. Dopo cinque anni di prigionia in una villa di proprietà dell'Eserci­to dove potevano ricevere amici e camerati, praticare sport e usufruire della libera uscita durante i fine settimana, gli er­gastolani tornarono in libertà.

La distruzione del passato

I militari abbandonarono il governo nel 1983. Lasciarono il Palazzo non perché costretti dalla mobilitazione delle forze democratiche, ma perché avevano portato a termine il compito: l'annichilimento di un'intera generazione che vole­va modificare le strutture del paese.

Ma perché una dittatura con una forza militare schiac­ciante ha scelto come strategia quella di far scomparire gli oppositori? Perché dopo la tortura e l'inumana prigionia queste persone non hanno avuto almeno il diritto a una con­danna a morte? Perché non sono stati sepolti, perché la di­struzione dei corpi? Perché desaparecidos?

Non c'è risposta che possa spiegare questa premeditata violazione di ogni diritto della persona. Di fronte a queste atrocità ogni logica decade, diventa inumana, e quando una logica diventa inumana non è più logica. Non è possibile pensare questi fatti all'interno del proposito del singolo cri­minale che cerca di non lasciare tracce, del delitto perfetto. Obiettivo strategico del progetto militare era la distruzione del passato.

La Commissione del Governo Alfonsin incaricata d'inda­gare ha avuto enormi difficoltà per ricostruire l'accaduto. In­teri edifici erano stati rasi al suolo per poi edificarvi sopra al­tre strutture. Tutto era stato cancellato.

La successiva necessità di eliminare in modo sbrigativo il passato recente, di perdonare coloro che non si ritengono nemmeno colpevoli, di mettere una pietra sopra la tragedia dei desaparecidos è complico della stessa strategia dell'an­nientamento.

Il tentativo di annullare il passato è manifesto. Perché se non esistesse il passato - in quella particolare forma di esi­stenza che è il non esserlo già - non esisterebbe nemmeno il presente e al futuro mancherebbe la possibilità di proiettarsi. Senza l'assunzione/rifiuto del passato storico non vi è spazio per il futuro. Ogni tentativo di annullare il passato, di far scomparire le sue tracce, lascerà dietro di sé una terribile e leggera debolezza, comporterà l'assenza di prospettive, un continuo girare a vuoto intorno a un presente immemore, istantaneo, senza tempo, senza essere, senza la possibilità di capire il proprio divenire.

I militari argentini lo sapevano e hanno distrutto e fatto sparire tutto ciò che hanno trovato. I governi democratici che si sono susseguiti hanno scelto l'oblio. Non assumendo questa pesante ma inderogabile eredità hanno indirettamen­te completato la distruzione dell'operato dei militari. Ma il passato non scompare mai, resta, non passa mai perche è sia passato. La confessione del capitano Adolfo Franci-sco Scilingo ne è una prova.

Il volo

Molti desaparecidos sono stati gettati in mezzo all'oceano. Questa è l'atroce ammissione di Scilingo. Lo si sapeva già, ma fatti come questi non erano mai stati riconosciuti ne rac­contati in prima persona da uno degli autori. Il volo - un ter­mine così lieve - diventa qui grave.

Una delle conseguenze di questa confessione è l'unifica­zione dei discorsi sulla storia argentina degli ultimi due de­cenni. Finora si è parlato di una storia ufficiale e di un'altra raccontata dai pochi superstiti o dai famigliari delle vittime. Durante i primi anni della dittatura le Madri di Plaza de Mayo erano infatti etichettate come Las locas de Plaza de Mayo (le pazze), quale ratifica della scissione che si era pro­dotta nella società argentina tra discorso ufficiale e discorso minoritario. I pochi che testardamente continuavano a opporsi a quella logica non potevano che essere "impazziti". La prima storia era documentata dagli atti di un governo ditta­toriale, il loro discorso era omogeneo, il loro agire sembrava incontestabile. La seconda storia era costruita da un'immen­sa massa di ombre che non potevano testimoniare, da inter­rogativi sulla loro sorte.

I desaparecidos furono con la loro assenza la principale accusa contro il terrore. Dopo la con­fessione di Scilingo la storia si unifica. I voli non erano che la macabra soluzione finale a un'alternativa politica.

Il linguaggio del libro non è facile. L'oggetto di cui si par­la è l'innominabile, anzi lo si vorrebbe nemmeno mai esisti­to. I desaparecidos non si trovano da nessuna parte, sono fan­tasmi che deambulano e ripercorrono una società che non si decide a cancellarli, ignorarli, annullarli. Così pure nel modo di esprimersi si parla di fatti che non vogliono essere ricono­sciuti come tali. Nessuno dei carnefici ha il coraggio di nomi­nare, di raccontare, di chiamare le cose con il loro vero no­me. Ognuno tenta di aggirare l'ostacolo della barbarie di cui è stato parte. Il linguaggio vuoi essere indiretto, impersonale. Tenta di aggirare il problema, di lasciar capire senza usare i termini appropriati. Sono parole non dette che, come i desa­parecidos, vogliono essere oggetto di rimozione.

Ciò che viene raccontato da Scilingo nella sua confessio­ne non è nuovo. Chi veramente voleva sapere quei fatti li co­nosceva già da anni. Le stesse autorità militari si erano mos­se per farli sapere, senza però mai ammetterli, per generare panico e diserzione tra le fila dell'opposizione. I fatti sono stati poi confermati dal ritrovamento di cadaveri mutilati con evidenti segni di tortura, riportati a riva dalle onde sul­le sabbie dorate di note località turistiche. Non scorderò mai una donna, il cui figlio era stato gettato vivo in mezzo al ma­re, che nel 1995 mi disse: "Sono stata invitata in vacanza a Villa Gesel, sul mare... ma non ce l'ho fatta, non potrò mai più fare il bagno in quelle acque".

Tutti i responsabili di questa strage sono in libertà, l'uni­co oggi in carcere è l'ex capitano Scilingo accusato di frode (benché sia stata già dimostrata la sua innocenza) per aver emesso assegni scoperti.

Claudio Tognonato Introduzione a "Il volo - Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos", Horacio Verbitsky, ed. Feltrinelli.



nota 1: Testimonianza di Miguel D'Agostino (fascicolo 3901) raccolta dalla Commissione nazionale per la scomparsa delle persone (Conadep). La Commissione, creata nel dicembre 1983 dal presidente Raùl Alfonsin, si occupò di far luce sulla violazione dei diritti umani durante la dittatura mi­litare.

nota 2: Prendendo in esame le cifre ufficiali delle cremazioni nel principale cimitero di Buenos Aires si verifica nel periodo una crescita allarmante:

1974 -> 13.120, 1975 -> 15.405, 1976 -> 20.500, 1977 -> 32.683, 1978 -> 30.094, 1979 -> 31.461, 1980 -> 21.381

(Fonte: Conadep fascicolo 6983).

nota 3: La sentenza stabiliva l'ergastolo per il generale Videla e per l'ammira­glio Massera; 17 anni per il generale Viola; 8 anni per l'ammiraglio Lam-bruschini e 4 anni e 6 mesi per il brigadiere Agosti. Gli altri mèmbri delle Giunte militari vennero assolti.

nota 4: L'elenco dei sovversivi presentava molti "errori", come nel caso dei quattro militari uruguaiani, noti torturatori, insieme ai nomi di persone scomparse e altre con certificato di morte in perfetta regola.



da

http://www.garageolimpo.it/stampa/tvfilm3-02.html

il Giornale di Vicenza

di Gabriele Colleoni

L'ARGENTINA CON QUELL'EREDITA' DI VITE RUBATE

Il regime imposto dal golpe militare del 24 marzo 1976 eufemisticamente si autodefinì proceso de reorganización nacional. Per il generale Rafael Videla e i commilitoni di Giunta, l'obiettivo era semplice: dovevano salvare la Nazione da terrorismo, sovversione e caos comunista che minacciavano l'Argentina e l'Occidente cristiano, seguendo i dettami della Dottrina della sicurezza nazionale a cui le forze armate sudamericane si ispiravano in quegli anni di convulsioni e guerriglie filocastriste e filoguevariste.
Dovevano salvare il Paese, ma senza ripetere gli «errori» compiuti da Pinochet nel Cile del 1973: una repressione troppo «visibile», con quegli stadi riempiti di prigionieri, e tutto sommato limitata. No, l'Argentina andava «ripulita», una volta per sempre da tutti i sovversivi, veri, presunti o potenziali che fossero, e lontano dai riflettori.
Il risultato fu un'intera generazione cancellata da un terrorismo di Stato pianificato che in sette anni si portò via nel nulla di una «scomparsa forzata» dalle 10 alle 30 mila persone, e un Paese abbandonato dopo la sconfitta alle Malvinas-Falkland con la gente nelle piazze a chiedere pan y trabajo, pane e lavoro. Andandosene nel 1983, i militari si lasciarono alle spalle anche una società alle prese con il trauma di una tragedia fino ad allora quasi ignorata («Por algo será», per qualcosa sarà, era la risposta più comune che l'uomo della strada si dava di fronte a quelle strane scomparse, in tempi in cui bastava l'ombra di un sospetto a precipitare una persona nel pozzo senza uscita della repressione), e soprattutto con la sfida di dover fare i conti con la giustizia e la memoria.
Ma oltre ai fantasmi di migliaia di desaparecidos, i successori di Videla lasciarono all'Argentina tornata alla democrazia, l'ombra sinistra di un'altra eredità: quella di altre centinaia di «vite rubate». Le vite dei bambini nati nei tanti Garage Olimpo disseminati a Buenos Aires e nelle altre città, dove le loro madri e padri venivano portati dalle Ford Falcon degli squadroni della morte, dopo esser stati rapiti in casa, per strada, a scuola... Bimbi che hanno visto la luce, dunque, nei luoghi bui dove i genitori venivano torturati, uccisi e fatti sparire per sempre.
Le «vite rubate» tra il 1976 e il 1984 furono 250, secondo le denunce raccolte dalla Commissione presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, alla quale con il ritorno della democrazia fu affidato l'inchiesta ufficiale sulla tragedia dei desaparecidos e la stesura del Rapporto Nunca Más. O forse più probabilmente furono 500, come sostengono le Abuelas de Plaza de Mayo, le Nonne di Plaza de Mayo, con alla testa Estela Carlotto, la combattiva signora argentina di origini padovane, le cui vicissitudini hanno ispirato il romanzo Le irregolari. Buenos Aires Horror Tour, scritto da un lontano parente italiano, Massimo Carlotto.
L'associazione, fondata nell'ottobre 1977 mentre cominciava a delinearsi nelle sue spaventose proporzioni la repressione sistematica messa in atto dalla Junta, ha cercato caparbiamente di seguire le tracce dei nipoti, attesi dai figli al momento della scomparsa, per ritrovarli e possibilmente restituirli agli affetti «naturali».
Di tutti ne sono stati ritrovati vivi e identificati 72. Tutti hanno alle spalle storie più o meno simili: «salvati» e affidati in adozione a famiglie spesso in buona fede, oppure altre volte direttamente agli aguzzini dei genitori. Un «copione» già approdato nel 1986 sul grande schermo con La Historia Oficial di Luis Puenzo.
Oggi I figli-fantasma dei desaparecidos hanno più di 20 anni, una vita già formata, relazioni e affetti consolidati. Posti di fronte all'atroce verità dell'identità loro nascosta e ora ritrovata, in 68 hanno Scelto dI tornare a vivere con i parenti naturali - nonni o zii - ma in quattro hanno deciso di restare nelle famiglie adottive.
All'impegno delle Abuelas si affianca dal 1995 il lavoro la commissione Hermanos (fratelli) dell'associazione H.i.j.o.s. (Figli per l'Identità, la Giustizia, contro l'oblio e il silenzio) costituita da figli o giovani parenti di desaparecidos. La ricerca dunque non si ferma, incoraggiata dal fatto che la sottrazione di minori (i figli degli scomparsi) costituisce per il codice argentino un reato «continuato», non concluso e quindi non prescrivibile, più forte di ogni legge di Punto Final, di «obbedienza dovuta» o di amnistia, varate dai governi democratici sotto il ricatto di azioni di forza dei militari nei 10 anni successivi al ritorno nelle caserme. Leggi che hanno di fatto prosciolto dalle colpe o liberato dalle condanne i responsabili dell'orrore. La sottrazione di minore si è rivelata invece il grimaldello legale con cui è stato possibile riportare in carcere il generale Videla e il suo collega di crimini di Stato, l'ammiraglio Emilio Massera, pur condannati nel primo processo.
Le nonne hanno versato il sangue in una Banca Nazionale Genetica, per eventuali esami del Dna, che sono in grado di confermare o dissipare con margine di errore minimo gli eventuali sospetti, quando pensano di aver rintracciato un nipote e portano il caso davanti al giudice.
Anche questa può essere una strada per non esorcizzare la giustizia necessaria alla convivenza civile, e per elaborare il lutto personale di una perdita insopportabile come quella di un figlio. E perché una società possa guardarsi, senza banalizzazioni ma anche senza sacralizzazioni ideologiche, nello specchio del proprio passato, per provare a ricostruire quella memoria comune del bene e del male vissuti, che sola può consentire a un popolo di avere un'identità riconciliata e vitale per il futuro.

......
TV Film 3 febbraio 2002
di Morando Morandini

Ieri , oggi ,domani

"Hijos" in castigliano sta per "figli", ma èanche il nome dell'associazione argentina che riunisce i figli dei prigionieri potitici che, neonati alla fine degli anni '70, dopo la "desaparici6n" dei genitori, furono dati in adozione ad altre famiglie, spesso quelle di ufficiali della dittatura militare. Secondo t'associazione Nonne di Plaza de Mayo, tra il 1976 e il 1984, scomparvero circa 500 bambini. I casi denunciati furono soltanto 250. Settantadue sono stati trovati vivi e identificati con sicurezza. Oggi sono adulti sopra i vent'anni. Sessantotto di loro hanno deciso di vivere con i parenti dei loro genitori naturali; solo quattro sono rimasti nelle famiglie acquisite. Ricordo quello che Gustavo Noriega scrisse dei sentimenti che gli aveva suscitato "Garage Olimpo"; non l'indignazione, che ci lascia appagati e soddisfatti con noi stessi, ma la nausea e la vergogna: "... la vergogna profonda dì essere argentino, di essere umano, di appartenere alla specie capace di una condotta simile. Siamo macchiati, lo saremo per sempre." Garage Olimpo" rinnova questa vergogna e io, personalmente, gliene sono grato". Con "Figli/Hijos" Marco Bechis torna su quella vergogna, ma con un'altra ottica. Non c'è più la violenza in presa diretta, ma rimane il dolore. I due film sono complementari e diversi. "Garage Olimpo" è un film sul passato, "FiglilHijos" rievoca quel passato con la sensibilità e, forse, la speranza del presente. Nel primo c'è una madre che ricerca una figlia, nel secondo una sorella, nuova Antigone, cerca un presunto fratello gemello e lo trova a Milano nel dicembre del 2000. Non importa molto se Rosa abbia o no ragione nel riconoscere in Javier il gemello: il legame di sangue è meno importànte, meno significativo della radice comune, collettiva e storica, che lega Javier e Rosa, come mostra il finale del film. "Garage Olimpo" era un film politico, almeno in un certo senso; "Figlii Hijos" è un film fatto politicamente.



http://www.cbc.umn.edu/~ernesto/24Marzo/24deMarzo1976.html

http://www.cbc.umn.edu/~ernesto/24Marzo/24Mar_homenaje.html

http://www.cbc.umn.edu/~ernesto/24Marzo/LaJuntaluz.html

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http://www.ecn.org/asicuba/libri/desapare.htm

DESAPARECIDOS


Violenza e salute mentale nelle carceri dei colonnelli argentini
di Maria Gabriella Sartori

ASSOCIAZIONE NOVA CULTURA EDITRICE
190 PAGINE L. 20.000
PROLOGO
Sono trascorsi tanti anni dall'epoca del Terrore, vissuta sotto la Dittatura Militare che imperò in Argentina, una strategia imposta alla stragrande parte dei paesi dell'America Latina dalla Dottrina di Sicurezza Nazionale. Si istaurò così un modello di società dominante con un alto costo sociale di vite per il popolo e un sistema di ingiustizie che continua ad imperare al giorno d'oggi, nonostante il ritorno a regimi democratici, più formali che reali.

In questo senso possiamo vedere come si sforza di nascondere e far dimenticare i fatti accaduti, rinviare i problemi non risolti, trascurare ferite non rimarginate, indugiare con claudicazioni di dirigenti politici che hanno preferito la convivenza con i responsabili del genocidio contro il popolo, piuttosto che adottare una condotta e un impegno etico, politico e sociale nella ricerca della verità e della giustizia per far sì che il popolo possa realmente ritrovarsi e costruire una democrazia autentica e partecipe.

Il popolo si ritrova oggi in uno stato di stallo giuridico. Durante il governo presieduto da Raúl Alfonsin, se, da una parte, si ottiene l'incriminazione delle tre prime Giunte Militari e la loro condanna, dall'altra, sotto pressione militare, vengono sanzionate le leggi del "Punto Finale" e quella aberrazione giuridica chiamata "Legge di Ubbidienza Dovuta". L'attuale governo del Presidente Carlos Menem, sanzionò per decreto gli indulti, liberando tutti i criminali e interrompendo così i processi.

Attraverso i mass media si è cercato che tutto restasse offuscato e lasciato nell'oblio. Le giustificazioni sono varie, come : "Bisogna dimenticare il passato e guardare il futuro, la vita continua". Al contrario sappiamo bene che i popoli che dimenticano perdono le loro radici e nuovamente cadono negli stessi mali già patiti. Dobbiamo tenere presente che è impossibile, a partire dall'impunità, costruire qualsiasi processo democratico autentico.

Nonostante tutto ciò che segnalo brevemente riguardo l'attuale situazione del paese, esiste l'azione di riscatto, positiva, di quelli che non hanno ceduto, e che nel loro impegno accanto al popolo, conservano la memoria, non per rimanere nel passato, ma per illuminare le coscienze e costruire un presente che possa proiettare nuove alternative sociali, politiche e economiche, impostate sulle necessità del popolo.

Maria Gabriella Sartori è stata una delle tante vittime della dittatura militare che ha devastato il nostro paese. Il suo impegno e responsabilità professionale gli hanno permesso, in base alle sue esperienze vissute nei carceri, di analizzare le conseguenze psicologiche sulle persone e sul popolo in generale. Il suo lavoro ci dà la possibilità di chiarire e recuperare una coscienza critica che ci permette di avanzare nel processo di Liberazione; processo che non inizia nel 1976 me è la continuazione di una lunga storia di incontri e separazioni, di scontri, evoluzioni e involuzioni nella vita del popolo.

Tupac Amaru diceva: "Di sconfitta in sconfitta stiamo costruendo la vittoria", siamo in marcia e i contributi a quel procedere sono diversi.

Ho già sottolineato che la Sartori, in questo libro che presenta, denota gli effetti della prigione sulla personalità delle detenute e le sue conseguenze psicologiche, ebbene voglio riferirmi ai metodi di studio utilizzati nell'indagine. Questi sono particolarmente accentrati sull'osservazione diretta, giacché fu partecipe, ma sono presenti anche l'osservazione indiretta e l'utilizzazione del metodo clinico, attraverso i colloqui e la psicoterapia.

Altri argomenti sviluppati sono: la legittimazione della violenza pianificata e sistematica; le giustificazioni del torturatore per esercitare la violenza; e il livello di consapevolezza, le alterazioni, il deterioramento psichico e le sue conseguenze individuali e sociali.

Tutta questa analisi evidenzia come il regime militare non soltanto mette in atto l'eliminazione fisica degli oppositori, come nel caso dei 'desaparecidos', ma che la metodologia repressiva era mirata alla paralisi sociale, all'irresolutezza, all'annichilimento psichico, fisico e ideologico delle masse.

Un altro degli aspetti che tratta la Sartori è la capacità di resistenza e di coscienza dei militanti nelle situazioni limite delle prigioni; così come della coscienza e distruzione in quelli che non hanno potuto resistere e hanno ceduto. Nel punto 8 della sua introduzione, analizzando un esempio proprio di questa situazione, esprime: "Possiamo supporre che la psicopatologia è conseguenza della sconfitta. Ci si "ammala" quando si è sconfitto. Non si è sconfitto quando si cade ma quando si fa ciò che vuole il nemico. E ciò che il nemico vuole è che il prigioniero politico abbandoni il suo progetto di vita per la liberazione, scegliendo quello che il nemico pretende".

La dittatura militare valutò le forme di violenza da applicare, in diversi livelli e condizioni, dall'annichilimento della persona alla sottomissione del popolo attraverso la politica del terrore. Perciò oggi è necessario riflettere e capirne le conseguenze, e capire ciò che sta accadendo nel campo popolare.

Siccome il presente è frutto di quel passato, non possiamo ignorare e tanto meno dimenticare, come alcuni pretenderebbero. Sottoscrivendo quest'idea, la Sartori va analizzando con sistematico rigore i significati del comportamento umano, i livelli di coscienza individuale e sociale, e la conformazione della coscienza come la comprensione integrale del significato della realtà obiettiva e soggettiva. Ciò implica il proposito attivo di trasformarla, dando facoltà alla creatività, identificandosi e integrandosi con progetto di vita superiore.

Il popolo argentino si trova oggi davanti ad un crocevia della coscienza collettiva, la dittatura militare ha lasciato profonde ferite non ancora rimarginate, una generazione che è stata eliminata dalla repressione e le devastanti conseguenze della Guerra delle Malvinas sulla gioventù. Dal potere s'implementano le giustificazioni ideologiche impiegate dalla dittatura militare e che, ancora oggi, prendono vigore dal modello neoliberista delle politiche economiche di "adeguamento", di capitalizzazione e di privatizzazioni. Tutto ciò per distruggere e sottomettere il popolo in nome dell'erroneamente denominata Civiltà Occidentale e Cristiana.

Gabriella Sartori esamina la condizione umana sottoposta alla violenza e al carcere, i suoi comportamenti. Come terapeuta si rivolge in modo particolare ad un settore della popolazione che ha subito direttamente la repressione e la violenza perpetrata dalla politica di terrore contro il campo popolare. Ma, oltre alle vittime che hanno patito la prigione, dobbiamo considerare, dice, che tutto il popolo, a diversi livelli, visse sommerso nel Terrorismo di Stato.

Nel libro segnala la necessità di unificare criteri riguardo a ciò che si considera e s'intende per Salute Mentale e per Malattia Mentale, e propone vie alternative e una metodologia di lavoro possibile con il paziente ex detenuto, liberato, comprendendo come ha vissuto e vive oggi, dopo le conseguenze subite, quel progetto integrale di vita che lo avevano portato alla militanza e all'impegno sociale. Quali sono i suoi conflitti, le sue difficoltà e le sue aspettative oggi? In quale modo il suo passato si ripercuote e segna oggi la vita dei figli di questi genitori prigionieri, 'desaparecidos'?

In questo senso l'autrice mette in evidenza uno dei fatti più commoventi: il significato dell'assenza. Rivela come un bambino con i suoi genitori prigionieri o 'desaparecidos' non è un bambino abbandonato, ma un bambino che subisce l'ingiustizia ai livelli più profondi con i quali si può far violenza ad un essere umano. Questo dramma lo possiamo vedere e vivere ogni giorno: il 'desaparecido' è assente per sempre.

Alcuni di noi che abbiamo sofferto in passato l'esperienza del carcere e della tortura, dell'isolamento prolungato, che siamo stati sottoposti a pressioni psicologiche, abbiamo imparato le facoltà e i limiti della condizione umana sottoposta alla violenza organizzata del sistema di oppressione, e anche la capacità di resistenza e di lotta per rimanere uomini e donne liberi, nella coscienza e nello spirito, anche dietro le sbarre. Per questo dobbiamo avvicinarci con molto rispetto e solidarietà a tutti quelli che si sono impegnati e hanno lottato insieme al popolo.

Gabriella Sartori apporta con questo spirito la sua esperienza personale e professionale e ci fa capire che nonostante tutto è ancora possibile costruire la speranza e l'utopia di un popolo.

Adolfo Perez Esquivel
Buenos Aires, 19 marzo 1993


INTRODUZIONE
Gli avvenimenti politici e repressivi che si verificarono nel 1976 e seguenti, presero di sorpresa tutto il campo popolare.

Fino ad oggi, anno 1984, molti sono i lavori e le pubblicazioni realizzate sia in Argentina che all'estero, scritti da persone direttamente colpite dal regime o da Organismi di Difesa dei Diritti Umani, che cercano di descrivere e di spiegare quanto accaduto.

La giusta bandiera della ricomparsa in vita dei detenuti scomparsi non invalida oggi le accuse di genocidio rivolte ai responsabili del golpe di stato del 24 marzo 1976. L'evidenza del ritrovamento di numerose tombe collettive e la scoperta di cadaveri con palesi segni di tortura e atroci mutilazioni, stanno a confermare che sono responsabili di crimini di lesa umanità.

Dall'evidenza delle carceri e dei campi di concentramento, che si scoprono soltanto oggi alla pubblica opinione argentina (però noti e denunciati da anni a livello internazionale), si percepisce l'esistenza di un fenomeno repressivo, qualitativamente diverso per la pianificazione scientifica dello stesso, ma affatto nuovo nella storia del nostro paese per quanto riguarda le metodologie utilizzate.

La contraddizione storica "POPOLO OLIGARCHIA" raggiunge il suo apice con il golpe del 1976.

Nel 1976 si confrontano due progetti di stato, due filosofie politico sociali, e di conseguenza, sul piano individuale, due progetti di vita, uno dei quali è rappresentato dalla Coscienza Oligarchica, sorta e consolidata nel corso dello scorso secolo sulla base della violenza, dello sfruttamento e dell'annichilimento di ogni forma di resistenza popolare. Questo progetto si basa sull'alleanza con l'imperialismo di turno inglese o statunitense e che, nonostante la sua conformazione nazionale, risulta antinazionale nei suoi interessi, progetti e obiettivi.

In contrapposizione alla stessa si sviluppò nello scorso secolo la Coscienza Nazionale che acquisì progressivamente maggiori livelli di comprensione e di espressione.

La 'picana eléctrica' venne già utilizzata contro il popolo argentino nel 1930, durante il golpe oligarchico che destituì il governo popolare di Yrigoyen, dando inizio al periodo denominato 'Década Infame', periodo nel quale, secondo lo storico J.J. Hernàndez Arregui, la Coscienza Storica degli argentini si trasformò in Coscienza Nazionale.

Comunque la repressione contro il popolo non comincia nel 1930 e non finisce, secondo noi, nel 1983.

Per riuscire a prevedere il futuro è necessario capire il presente e analizzare il passato, non come un mero esercizio sterile o esclusivamente intellettuale, ma per intendere quali sono state le forze in campo e sostanzialmente, quali erano i loro progetti storici.

Il popolo argentino ambisce la Pace e la Giustizia, ma nella coscienza oligarchica pace significa sottomissione, da ottenere, se è il caso, per mezzo della forza e del terrore. Questo metodo di "pacificazione" non è stato soltanto sperimentato e perpetrato nei campi di concentramento e nelle carceri argentine durante la dittatura militare appena spodestata, ma su tutto il territorio nazionale, che divenne un immenso lager, nel quale si utilizzarono diverse tecniche e metodologie di repressione, scientificamente pianificate, per colpire in modo diversificato i diversi settori della popolazione;

Per le più alte espressioni della Coscienza Nazionale, quelli definiti "incorruttibili" e "irriducibili"; il carcere, il lager, la morte.

Per l'insieme della classe operaia: la minaccia della perdita del posto di lavoro, la fame, la disoccupazione, la costrizione a canalizzare ogni energia nella lotta quotidiana per la sopravvivenza.

Per il ceto medio: l'alternanza del terrore con "favori", (quali i "dollari falsi" e la possibilità di speculazione finanziaria stimolata dal Ministro dell'Economia Martinez de Hoz), come metodo per ottenere il consenso, assieme alla minaccia della perdita dei loro scarsi privilegi.

Per gli imprenditori nazionali: una politica dichiaratamente contraria allo sviluppo industriale, che portò al fallimento un alto numero di aziende.

Per i piccoli e medi produttori agricoli: il soffocamento economico, la perdita delle proprietà, l'estinzione di questo settore produttivo.

Il progetto oligarchico del 1976 significò l'eliminazione del settore più significativo di una generazione di argentini; una generazione di operai, di studenti, d'impiegati, d'intellettuali e di professionisti che sintetizzavano il progetto di Liberazione Nazionale e Sociale.

Questo progetto di annichilimento e di distruzione nazionale, venne studiato ed eseguito con una chiara visione del futuro, e i suoi effetti non si manifestano tutt'oggi completamente. Le nuove forme di dipendenza dall'imperialismo e la sovversione dei valori si manifestano a lungo termine.

Una generazione di ragazzini argentini, figli della classe operaia, nati mentre si attuava il piano economico del ministro Martinez de Hoz, hanno patito la fame dalla nascita. Sono già 300.000 i bambini che sono stati "annientati" dalla politica della fame, morti per denutrizione. Ci sono inoltre migliaia di bambini dai 5 ai 7 anni con ritardi mentali dovuti alla carenza o all'insufficienza proteica dell'alimentazione nei primi anni di vita. Questa generazioni di argentini, con problemi di apprendimento riuscirà a malapena a concludere la scuola dell'obbligo, e in prospettiva, quando s'inseriranno sul mercato del lavoro potranno aspirare soltanto a mansioni di "operai non qualificati". Questa è la generazione che dovrebbe essere protagonista nell'Argentina del 2000.

Ovviamente, in un progetto prevalentemente agricolo esportatore, si verifica un eccedente di popolazione e non ha bisogno di manodopera qualificata.

Argentina, un paese che presenta le ferite e le umiliazioni dovute alle migliaia di detenuti scomparsi, ai prigionieri che transitarono per tutte le carceri della dittatura, ai familiari delle vittime della repressione, ai reduci della guerra delle isole Malvinas, potrà rimarginare le sue ferite soltanto attraverso la Giustizia.

Il problema della Giustizia non si risolve con la condanna alla prigione dei nove capi delle Forze Armate e dei principali esecutori della repressione terrorista, ma nella possibilità per un popolo con autentica vocazione nazionale di realizzare il suo destino storico.

Quindi Giustizia significa Liberazione Nazionale e Sociale.

Maria Gabriella Sartori

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